I limiti di un approccio alla salute non multidisciplinare
Partiamo da un esempio.
Immaginate di avere un dolore al ginocchio.
Cosa fate ?
La prima cosa che farete sarà chiamare il vostro medico di base. Questo seppur possa abbozzare una prima diagnosi, per precauzione, vi chiederà di effettuare una risonanza magnetica e un consulto con un ortopedico. Vi congederà probabilmente con un’ipotesi diagnostica, per esempio, di lesione del menisco.
La seconda cosa che farete, quindi, sarà effettuare la risonanza per farla consultare ad un ortopedico, il quale vi dirà che è presente un principio di artrosi nel ginocchio. La sua ipotesi però è che il disturbo possa essere associato ad altre problematiche, per esempio, riferite alla colonna lombare. Vi prescriverà quindi un ulteriore approfondimento diagnostico per escludere la presenza di ernie discali alla colonna.
La terza cosa che farete, quindi, sarà una risonanza magnetica alla colonna per sottoporla a un consulto con un altro ortopedico (il precedente era in ferie) che sosterrà che la protrusione evidenziata dall’esame può non essere sufficiente a giustificare tale dolore al ginocchio. La sua ipotesi, dedotta dall’anamnesi, sarà quella di un disturbo intestinale, collegato ad un periodo di forte stress, che condiziona negativamente sia la schiena che il ginocchio.
Così, senza ancora una chiara diagnosi, vi recherete dal gastro-enterologo e così via.
Ora, su questa possibile concatenazione di eventi, cosa possiamo concludere ?
I medici non sono capaci ?
Assolutamente no, le quattro diagnosi (ginocchio, lombare, intestino, stress) possono essere tutte e quattro vere.
Il problema è più complesso di quello che sembra ?
Probabilmente sì, ma non in termini di gravità piuttosto di comprensione. La salute, vi ricordo, è un fenomeno dinamico complesso che si allontana dall’equilibrio, ergo, non possono esistere risposte semplici e lineari. Il fatto che tutte e quattro le diagnosi possano essere vere dimostra che seppur ogni pezzetto diagnostico sia giusto (possono tutte e quattro dare un problema al ginocchio), manca la visione della totalità del caso clinico. Ogni professionista ha intercalato il vostro caso nel recinto delle proprie capacità diagnostiche e specialistiche. Quindi il limite nelle quattro interpretazioni, è proprio nel fatto che ognuna di esse, derivi dalla visione limitata delle proprie conoscenze, e dal fatto che i quattro professionisti non hanno discusso e integrato le informazioni, per una gestione multidisciplinare e unitaria del caso clinico. Inoltre se le quattro diagnosi avessero poi dato vita a quattro percorsi terapeutici diversi, ognuno dei quali limitato al “pezzetto osservato”, il risultato potrebbe essere frammentato e non risolutivo facendo perdere del tempo prezioso al paziente. Se invece le quattro figure professionali, dall’alto delle proprie conoscenze e limiti, avessero lavorato in modo corale, avrebbero potuto generare una migliore diagnosi e sicuramente una migliore soluzione.
Cose impariamo da un esempio come questo?
- Che in un problema, che si palesa senza un diretta conseguenza (trauma), la valutazione e la gestione può essere complessa come lo sono tutti i meccanismi che la regolano e la modulano. Ogni persona porta con sé un microcosmo , fatto di problemi, traumi fisici, traumi emotivi, difetti di funzionamento (organi), e solo con un osservazione il più possibile allargata se ne può avere una migliore (non assoluta) valutazione, specie in quelle persone con problemi cronici e multifattoriali.
- Che spesso non è sufficiente un professionista, ma neanche tanti, ancor più se non dialogano. Non può essere sufficiente un professionista perché se il problema non è di quell’ambito si rischia, a volte per tentativi, di iniziare terapie inutili e che fanno perdere del tempo. D’altro canto, non occorrono neanche tanti professionisti, della stessa specializzazione o non, perchè in molti dei casi potrebbero esserci differenti diagnosi, che se non coordinate, genererebbero solo incertezza terapeutica. Il miglior approccio, è quello di avere tanti professionisti che si possano occupare dei singoli ambiti e che possano con le proprie conoscenze specialistiche confrontarsi per unificare il ragionamento clinico e il sentiero terapeutico. La differenza sta nel fatto che in questo caso l’incongruenza diagnostica resta all’interno di un team di addetti ai lavori, a differenza del caso di tanti professionisti che lavorano in autonomia, in cui l’incongruenza diagnostica arriva al paziente che si ritrova a scegliere senza nessuna ratio.
- La perdita della centralità del paziente. Non si cura il paziente ma la malattia con l’attuazione di protocolli standardizzati e una visione riduzionistica e specialistica. Questo è ciò che deriva dall’eredità di Simplicio, costruita sul filo dei secoli in cui è più semplice “prendere atto di” che scoprire la “legge dei fenomeni osservati”. Tutto il meccanismo di valutazione è perciò basato ancora su modelli di interpretazione lineari legati al “come” anziché il “perché”: cerco la malattia, la trovo, la curo. L’essere vivente purtroppo risponde ad altre leggi, che sono complesse, e perciò la specializzazione, la mancanza di integrazione, porta all’errata e incompleta interpretazione della fisiologia corporea globale nella salute e nella malattia. Il “one drug – one target”, seppur valido in alcuni casi, non può essere assoluto, soprattutto nei pazienti con cronicità. Più si cerca di spezzettare la comprensione della fisiologia e più si perde la comprensione dell’interezza del fenomeno. Il cambio di paradigma terapeutico, che mette al centro della diagnosi, il paziente e la sua complessità biologica, permette di passare dal riduzionismo diagnostico-terapeutico legato alla malattia, alla comprensione delle dinamiche complesse che renderanno la cura, un potenziamento della Salute.
Dott. Marco Corvino